lunedì 26 settembre 2011

Che non mi piacciono i buoni, ma i generosi

Non mi piace la gente che vede sempre le cose in modo positivo. Non mi piacciono quelli che ti dicono "ma sì, sorridi alla vita, vedrai che ti sorriderà" o cose così. Palle. Vengono lì, con il loro musino tutto dolce, una bella mezzaluna all'insù stampata in faccia e t'insegnano a vivere.

Ma vaffanculo. Ma col cuore, eh? Tanto tu ci sorridi sopra.


Non è vero, non è così che va. La vita ti sorride quando vuole lei, se decide di farlo. Che tu puoi essere anche l'essere più triste, incazzato e stanco del mondo che lei fa quel che vuole. Se vuole, d'improvviso ti innalza fino al nirvana del perfetto culo. E se invece di fartela andare bene ha voglia di metterti lì un bello stronzo sotto la scarpa, che non si stacca neanche con l'acido, lo fa anche se stai camminando con una paresi di felicità sul volto. Chi ti racconta che il mondo è un bel posto, è perché non ha mai vissuto. Il mondo non è un bel posto per niente. Ce lo facciamo andar bene, finchè ce la si fa. Accadono delle cose belle, certo, questo sì. Se c'hai culo, magari anche a te. Ma come diceva il saggio, anche un orologio rotto segna l'ora esatta due volte al giorno. Non per questo funziona. Quindi, per favore, cari piacioni del mondo, innamorati della vita e salcazzo, sparite dalla mia vista. Andate a farvi un giro dove la gente ancora muore di fame e sete nel ventunesimo secolo, per esempio, oppure andate ad Arcore, va bene lo stesso, e perdonatemi la retorica. L'importante è che portiate il vostro verbo da un'altra parte, che qui non attacca.

Qui, al limite, s'attacca lo stronzo.



lunedì 21 febbraio 2011

Doc

Mi capita oggi di andare dal dottore. Nella sala d'attesa, una bimba gioca con la macchinetta della pressione sotto l'occhio vigile della madre. Un signore distinto, avvolto nel suo cappotto invernale nonostante il caldo all'interno della stanza, legge una rivista. Una signora arriva trafelata, si siede, si rialza, le cade il bastone, si toglie giacca e golfino, mi dice quanto faccia caldo qui. Le sorrido, e guardo fuori dalla finestra. Piove, manco a dirlo.

Ricordo quando da bambino mia madre mi accompagnava dal dottore. Era sempre di sera, ed era sempre d'inverno. Non pioveva, ma era buio, e c'era la nebbia. Le sedie nella sala d'attesa erano di legno bianco, un po' scomode, e raccontavano un po' la storia delle persone che vi si erano sedute sopra. Le piastrelle del pavimento erano come quelle che c'erano dallo zio Emilio, sapevano di vecchio ma anche ti ricordavano casa. Mi piaceva andare dal dottore con la mamma. Mi piaceva fare quella cosa che non facevamo mai a casa. Sederci vicino. Due sedie bianche, una accanto all'altra. La guardavo dal basso verso l'alto e lei mi chiedeva cosa avessi fatto a scuola, se avessi studiato, fatto i compiti. Faceva la mamma. Ma mi chiedeva anche che cosa volessi fare da grande, mi diceva "cosa vuoi fare" e la vedevo illuminarsi o fare facce scherzosamente preoccupate a seconda delle mie risposte. Era bello. In quei momenti lei era tutta mia. Non dovevo condividerla con i miei fratelli, con mia sorella, con mio papà. Era mia, ed era a me che si interessava. Era un momento, ed io lo sentivo. La mia mamma era mia.

Una donna sui quaranta, molto carina, minuta, entra nella sala e chiama il mio nome.
Mi alzo dalla sedia, di legno bianca, e do un ultimo sguardo fuori dalla finestra. Piove, ma fa caldo qui, e non c'è nebbia. Mi chiedo dove sia finito tutto quel tempo passato.