venerdì 3 dicembre 2010

Cosa vuoi da me?

Continua pure a riempirmi con i tuoi colori,
un fantasma trasparente
del blu per la mia faccia,
del verde per la mia pelle,
e scegli, scegli,
continua pure a gettare il tuo arcobaleno su di me.

Un fantasma trasparente,
un omino di cartone
un libro per bambini
colorami, riempimi,
del blu per la mia pelle,
del verde per la mia faccia,

sono quello che tu vuoi
sono quello che ti sembro
sono quello che tu vuoi

Ti fermerai pensando "adesso è finito"
ti sorprenderai scoprendo l'infinito
vorrai indietro
il blu della mia faccia
il verde della mia pelle
darai un senso al tuo volere cercando di scappare

Un fantasma trasparente,
un omino di cartone
un libro per bambini
colorami, riempimi,
del blu per la mia pelle,
del verde per la mia faccia,

sono quello che tu vuoi
sono quello che ti sembro
sono quello che tu vuoi

martedì 30 novembre 2010

Ciao Mario!

Addio ad un grande.

sabato 20 novembre 2010

In questo momento sto pensando

Che non sarebbe male
prendermi la testa con una mano,
incominciare a giocare,
con l'altra un coltello al collo portare.

Pazientemente tagliare tutt'intorno,
fino a poterla staccare, e guardare con gli occhi dell'anima;
osservare il sangue
gocciolare
e ancor di più,
per una volta,
veder l'effetto che fa.

E poi infilarla su di un palo rovente,
ed infine darle fuoco, dolcemente,
s'intende.
Tutta quella massa fondersi, gocciolare...
e smettere, finalmente,
di pensare.

venerdì 19 novembre 2010

Lettera ai bambini

È difficile fare
le cose difficili:
parlare al sordo,
mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate
a fare le cose difficili:
a dare la mano al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi
che si credono liberi.

Gianni Rodari


Non c'è molto da aggiungere, vero?

lunedì 1 novembre 2010

La voglia di tornare

Ho imparato a riconoscerla, ma non a combatterla. Appare dal nulla, senza preavviso e colpisce forte. Molto forte a volte. Si nasconde dietro alle giornate grigie, ad una telefonata mancata, ad un sabato sera passato in casa. La si intravede in un compleanno non festeggiato, in un augurio non fatto, in una fotografia di un mondo che una volta era il tuo ed ora non più.

A volte penso "torno". Questo pensiero è molto più ricorrente ora di quanto lo fosse sei mesi fa, e non so nemmeno perchè. In realtà, ci sarebbero più motivi per stare che per tornare. In Italia davvero non saprei che fare ora. Ma mi manca il mio mondo, ecco quale è il problema. C'è questa sensazione che si posa qui, sullo stomaco, come un macigno, e che mi fa pensare che è ora di dare la sterzata finale e chiudere il conto anche con l'Inghilterra. Mi piace stare qui, l'ho sempre detto. E non rimpiangerò mai la decisione di essere venuto a fare questa esperienza. Mi sento molto più completo ora, ho fatto qualcosa che ha cambiato la mia visione del mondo e delle cose. Lo posso giudicare su me stesso già da ora e penso in futuro potrò goderne ancor di più, guardando indietro. Già. Guardando indietro. E' questo il fatto. Ho sempre detto che la mia esperienza qui sarebbe stata temporanea, ma non mi ero mai dato un termine preciso. Sei mesi, un anno, due, cinque, dieci. Molto sarebbe dipeso dalle opportunità lavorative. Ma su questo mi sbagliavo. Molto sarebbe dipeso dalla mia pancia, ecco quello che non sapevo. Dalle sensazioni che vi ci sarebbero depositate sopra, pian piano, giorno dopo giorno, e che mi avrebbero poi fatto scegliere, o meglio "sentire" quando fosse stato il momento di tornare. Un momento che, a giudicare dalla sempre più assidua presenza della "voglia" nelle mie giornate inglesi, si sta avvicinado a grandi falcate.

mercoledì 27 ottobre 2010

Una ragazza

Seduta sul ciglio della strada, vestita, se così si può dire, con un maglione a righe verde e gialle, logoro e con visibili buchi un po’ ovunque. Una gonna: nera, corta, logora anch’essa, ma un tempo probabilmente molto carina. Porta calze nuove, multicolore, che risaltano nel contrasto. Le scarpe, quelle, sono nere e usurate e potrebbero stupirvi. Ma solo per un attimo. Il fatto che non si trovino ai piedi della fanciulla ma appoggiate di fianco a lei, in ordine, non fa altro che coincidere con l’immagine totale. I capelli, sciolti, leggermente arruffati ma puliti, un po’ biondi e un po’ castani, le coprono il viso così che a prima vista non riusciamo a vederlo completamente. Il corpo è snello, anche se, vista la posizione di lei, la nostra è più un’intuizione che una certezza. Una borsa.

La strada è trafficata oggi. Macchine e camion, camion e macchine e rumore e velocità. È quello che ci si aspetta su una strada, ma questa strada è troppo trafficata oggi. Il fatto che sia Lunedì mattina probabilmente incide sull’umore degli automobilisti. Arrabbiati e stanchi dopo una domenica di riposo, sono tutti intenti a raggiungere il più in fretta possibile un posto dove non vogliono andare. E ai loro occhi, ancora non del tutto aperti, la presenza di una ragazza sul ciglio della strada non desta particolare attenzione. Un tizio, lo vediamo di sfuggita, rallenta per un attimo, attirato da quel tratto di gambe che le calze lasciano scoperte. Un clacson suona, ma non sappiamo se indirizzato alla ragazza oppure all’autista che ha rallentato. O a qualsiasi altro. La ragazza si muove. Si gira verso di noi. I capelli si spostano quanto basta per capire che la nostra prima idea non era sbagliata. E’ bella. Forse non bellissima, ma bella. Sta parlando. Non riusciamo a capire con chi. Forse all’indirizzo di quel clacson che, possiamo immaginare, l’ha svegliata, o semplicemente disturbata. Si alza. La vediamo chinarsi e raccogliere le scarpe, senza indossarle. Mentre fa questo, il traffico rallenta. Una macchina quasi si ferma davanti a lei e per qualche momento la perdiamo di vista. Questione di un attimo e tutto torna come prima. La ragazza, scarpe in mano, si è incamminata lungo la strada. Mentre la seguiamo, nella nostra visuale entra una stazione di servizio. Ci chiediamo se sia lì che è diretta. Se dovessimo scrivere una storia per lei, probabilmente la faremmo entrare a prendere un caffè. O meglio un latte e cioccolato. Sì, lei è da latte e cioccolato con tanto zucchero.

venerdì 22 ottobre 2010

A killer called "cat"

Quando mi sono trasferito qui a Wolvercote, uno dei posti che ho imparato ad amare subito della nuova casa è stato il giardino. Lì infatti c'è un piccolo stagno, abbastanza profondo (come faccio a saperlo? il precedente inquilino c'è caduto dentro!) dove ho notato da subito, con piacere, vivono numerosi, amabili e simpatici toads, ovvero rospi! E' davvero interessante vedere come si muovono e girano per il giardino. Prendono l'iniziativa, vanno a spasso, si riproducono anche (non li ho mai visti, non sono ancora così studioso della specie). Ogni tanto infatti posso notare piccoli rospetti, della dimensione di un centimetro cubo più o meno, aggirarsi titubanti sulle foglie che coprono lo stagno. Vista la presenza, direi alquanto inusuale, di questi animali in casa, un giorno ho chiesto al padrone se avesse, o avesse avuto, altri animali. Avevo infatti visto ogni tanto gironzolare nel giardino un gatto, ma non sapevo a chi appartenesse. Patrick, questo il nome del mio landlord, mi spiegò che i rospi erano arrivati da soli nello stagno, e che un tempo c'erano stati anche dei pesci a far loro compagnia. Poi un giorno si era accorto che i rospi erano rimasti, ma dei pesci neanche più l'ombra. Non ne aveva la certezza, ma era convinto che fosse stato il gatto, dei vicini, a banchettare con i silenziosi animaletti. E per questo motivo lo odiava. Ogni volta che può, infatti, Patrick, se vede il gatto in giardino, gli tira un sasso per... farlo scappare. Con il tipico amore inglese per gli animali infatti, non potrebbe mai colpirlo. Si limita a spaventarlo, lanciando un sasso vicino a lui, mai addosso.
Ora, io non sono mai stato convinto del fatto che il gatto dei vicini si fosse mangiato i pesci, mi sembrava strano. La mia tesi era la morte naturale dei natanti. Almeno fino ad oggi.
Oggi infatti mi sono dovuto ricredere. Quando ho visto il gatto dei vicini di nuovo passeggiare nel nostro giardino, comodo, bello soddisfatto anche, con uno scoiattolo in bocca! Non ci volevo credere, ma era proprio uno scoiattolo, con la sua bella coda e tutto. Morto però. Killer cat ha colpito ancora.

Carlos

L’Anima è una lunga serie di palazzi, tutti uguali, scuri e imponenti, che s’intrecciano per un paio di chilometri, alla periferia della Città dei Santi. Quando l’ex-sindaco, dieci anni fa, aveva ordinato la sua costruzione, lo aveva fatto di tutta fretta su suggerimento dei suoi consiglieri, che erano venuti a sapere dell’imminente apertura di un tratto autostradale da chissà quali fonti, con l’evidente intento di anticipare la rivalutazione dei terreni e guadagnarci in popolarità ma soprattutto in soldoni. Ma il progetto autostradale era cambiato, le cose non erano andate come avrebbero dovuto, e il sindaco aveva perso faccia e posto. Il quartiere così era rimasto un oasi di vetro e cemento isolato alla periferia della città, trasformandosi presto in quartiere popolare, dove prima la povertà e poi la violenza, sorelle che amano viaggiare in compagnia, avevano trovato casa. Carlos vive qui. Ci è arrivato circa un anno fa, con il suo carico di belle speranze e la sua laurea in Filosofia, convinto che il suo futuro potesse cambiare, in una grande città. Sua madre ha riposto molte speranze in lui, e speso quasi tutti i risparmi per farlo studiare e fargli ottenere una laurea che lo facesse diventare qualcuno, e alla fine ha accettato anche l’idea che lui se ne andasse via, lontano, nonostante questo la facesse così soffrire. Ma per Carlos, ora, il momento non è dei migliori. Dopo aver cercato in tutti i modi di ottenere un posto di lavoro del quale andare orgoglioso, senza successo, adesso, per guadagnare almeno i soldi dell’affitto, lavora alla stazione di servizio come cameriere, 10 ore al giorno, per una miseria. La sua camera è una stanza di due metri per tre, dove dorme, mangia, beve, passa il suo tempo libero e a volte fa l’amore. Vive con Jack, meccanico peruviano, e Gotta, che è indiana e fa la commessa nell’unico supermercato dell’Anima. In realtà lei si chiama Maria ma Carlos la chiama così perché quando è arrivato qui lei parlava sempre della gotta che aveva, che le faceva così male, che non voleva passare e che non la faceva dormire. Quando Gotta cucina qualcosa, e questo qualcosa è quasi sempre riso, lo fa alle sei e trenta del mattino, cosicché quando Carlos si alza, mezz’ora dopo, all’idea di far colazione ha un conato di vomito.

giovedì 21 ottobre 2010

John Sham

John Sham è un uomo semplice. Regolare. Ha imparato ad esserlo, anche se, forse, quando era più giovane, non avrebbe amato descriversi uno “regolare”. Ma è una persona come tante, che il tempo e la vita hanno piegato ad un comportamento più sobrio e responsabile, qualsiasi cosa queste parole vogliano dire. Ha girato un po’ per il mondo, ma nemmeno troppo, una vita fa. Ha un lavoro, ed è già qualcosa, ma non ha una moglie e non ha figli. Non ha molto successo con le donne, ma non è brutto. Lo potremmo descrivere “un tipo”, anche se probabilmente lui non sarebbe d’accordo. Ha un fisico asciutto, è abbastanza alto, castano, occhi verdi. Ed è intelligente. Fottutamente intelligente. Di quel tipo d’intelligenza che crea più problemi che vantaggi ad un certo punto della vita. Quel tipo d’intelligenza che ti fa pensare alle cose anche quando non sarebbe il caso di pensarci poi così troppo. John Sham non ha una buona opinione di sé. Si considera sfortunato ed un indeciso cronico. Per questo ora è diventato così. Niente più voli pindarici e sogni di gloria, ma una solida pagnotta da portare a casa tutte le sere. Quando lo guardiamo uscire di casa, la valigetta ventiquattrore ed il cappottino elegante, dietro agli occhiali firmati, possiamo leggergli in faccia le stimmate dell’insoddisfazione.

can I talk to you?

Quante volte ho scritto che sarei tornato e poi invece non l'ho fatto?
E' che a volte ritorno, ma poi mi dimentico, e poi mi ricordo ancora. E allora poi prometto, ma non mantengo, ma solo a me stesso, agli altri mai. Perchè è importante essere corretti, mantenere l'immagine. Che poi non è immagine, è davvero il desiderio di essere. Preciso, puntuale, Onesto, con la lettera capitale. Per te, questo ed altro ancora.
Ci sono serate come queste in cui vorrei parlare e non posso, allora scrivo, un po' qui, un po' là, e poi ritorno qua. Torno a casa, apro il cassetto, tiro fuori il sogno, lo spolvero, gli do una rassettata, me lo godo perfino, lì, davanti a me, tutto tirato a nuovo. Ma poi son di nuovo stanco, e penso, sì, ok, da domani.