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mercoledì 27 ottobre 2010

Una ragazza

Seduta sul ciglio della strada, vestita, se così si può dire, con un maglione a righe verde e gialle, logoro e con visibili buchi un po’ ovunque. Una gonna: nera, corta, logora anch’essa, ma un tempo probabilmente molto carina. Porta calze nuove, multicolore, che risaltano nel contrasto. Le scarpe, quelle, sono nere e usurate e potrebbero stupirvi. Ma solo per un attimo. Il fatto che non si trovino ai piedi della fanciulla ma appoggiate di fianco a lei, in ordine, non fa altro che coincidere con l’immagine totale. I capelli, sciolti, leggermente arruffati ma puliti, un po’ biondi e un po’ castani, le coprono il viso così che a prima vista non riusciamo a vederlo completamente. Il corpo è snello, anche se, vista la posizione di lei, la nostra è più un’intuizione che una certezza. Una borsa.

La strada è trafficata oggi. Macchine e camion, camion e macchine e rumore e velocità. È quello che ci si aspetta su una strada, ma questa strada è troppo trafficata oggi. Il fatto che sia Lunedì mattina probabilmente incide sull’umore degli automobilisti. Arrabbiati e stanchi dopo una domenica di riposo, sono tutti intenti a raggiungere il più in fretta possibile un posto dove non vogliono andare. E ai loro occhi, ancora non del tutto aperti, la presenza di una ragazza sul ciglio della strada non desta particolare attenzione. Un tizio, lo vediamo di sfuggita, rallenta per un attimo, attirato da quel tratto di gambe che le calze lasciano scoperte. Un clacson suona, ma non sappiamo se indirizzato alla ragazza oppure all’autista che ha rallentato. O a qualsiasi altro. La ragazza si muove. Si gira verso di noi. I capelli si spostano quanto basta per capire che la nostra prima idea non era sbagliata. E’ bella. Forse non bellissima, ma bella. Sta parlando. Non riusciamo a capire con chi. Forse all’indirizzo di quel clacson che, possiamo immaginare, l’ha svegliata, o semplicemente disturbata. Si alza. La vediamo chinarsi e raccogliere le scarpe, senza indossarle. Mentre fa questo, il traffico rallenta. Una macchina quasi si ferma davanti a lei e per qualche momento la perdiamo di vista. Questione di un attimo e tutto torna come prima. La ragazza, scarpe in mano, si è incamminata lungo la strada. Mentre la seguiamo, nella nostra visuale entra una stazione di servizio. Ci chiediamo se sia lì che è diretta. Se dovessimo scrivere una storia per lei, probabilmente la faremmo entrare a prendere un caffè. O meglio un latte e cioccolato. Sì, lei è da latte e cioccolato con tanto zucchero.

venerdì 22 ottobre 2010

Carlos

L’Anima è una lunga serie di palazzi, tutti uguali, scuri e imponenti, che s’intrecciano per un paio di chilometri, alla periferia della Città dei Santi. Quando l’ex-sindaco, dieci anni fa, aveva ordinato la sua costruzione, lo aveva fatto di tutta fretta su suggerimento dei suoi consiglieri, che erano venuti a sapere dell’imminente apertura di un tratto autostradale da chissà quali fonti, con l’evidente intento di anticipare la rivalutazione dei terreni e guadagnarci in popolarità ma soprattutto in soldoni. Ma il progetto autostradale era cambiato, le cose non erano andate come avrebbero dovuto, e il sindaco aveva perso faccia e posto. Il quartiere così era rimasto un oasi di vetro e cemento isolato alla periferia della città, trasformandosi presto in quartiere popolare, dove prima la povertà e poi la violenza, sorelle che amano viaggiare in compagnia, avevano trovato casa. Carlos vive qui. Ci è arrivato circa un anno fa, con il suo carico di belle speranze e la sua laurea in Filosofia, convinto che il suo futuro potesse cambiare, in una grande città. Sua madre ha riposto molte speranze in lui, e speso quasi tutti i risparmi per farlo studiare e fargli ottenere una laurea che lo facesse diventare qualcuno, e alla fine ha accettato anche l’idea che lui se ne andasse via, lontano, nonostante questo la facesse così soffrire. Ma per Carlos, ora, il momento non è dei migliori. Dopo aver cercato in tutti i modi di ottenere un posto di lavoro del quale andare orgoglioso, senza successo, adesso, per guadagnare almeno i soldi dell’affitto, lavora alla stazione di servizio come cameriere, 10 ore al giorno, per una miseria. La sua camera è una stanza di due metri per tre, dove dorme, mangia, beve, passa il suo tempo libero e a volte fa l’amore. Vive con Jack, meccanico peruviano, e Gotta, che è indiana e fa la commessa nell’unico supermercato dell’Anima. In realtà lei si chiama Maria ma Carlos la chiama così perché quando è arrivato qui lei parlava sempre della gotta che aveva, che le faceva così male, che non voleva passare e che non la faceva dormire. Quando Gotta cucina qualcosa, e questo qualcosa è quasi sempre riso, lo fa alle sei e trenta del mattino, cosicché quando Carlos si alza, mezz’ora dopo, all’idea di far colazione ha un conato di vomito.

giovedì 21 ottobre 2010

John Sham

John Sham è un uomo semplice. Regolare. Ha imparato ad esserlo, anche se, forse, quando era più giovane, non avrebbe amato descriversi uno “regolare”. Ma è una persona come tante, che il tempo e la vita hanno piegato ad un comportamento più sobrio e responsabile, qualsiasi cosa queste parole vogliano dire. Ha girato un po’ per il mondo, ma nemmeno troppo, una vita fa. Ha un lavoro, ed è già qualcosa, ma non ha una moglie e non ha figli. Non ha molto successo con le donne, ma non è brutto. Lo potremmo descrivere “un tipo”, anche se probabilmente lui non sarebbe d’accordo. Ha un fisico asciutto, è abbastanza alto, castano, occhi verdi. Ed è intelligente. Fottutamente intelligente. Di quel tipo d’intelligenza che crea più problemi che vantaggi ad un certo punto della vita. Quel tipo d’intelligenza che ti fa pensare alle cose anche quando non sarebbe il caso di pensarci poi così troppo. John Sham non ha una buona opinione di sé. Si considera sfortunato ed un indeciso cronico. Per questo ora è diventato così. Niente più voli pindarici e sogni di gloria, ma una solida pagnotta da portare a casa tutte le sere. Quando lo guardiamo uscire di casa, la valigetta ventiquattrore ed il cappottino elegante, dietro agli occhiali firmati, possiamo leggergli in faccia le stimmate dell’insoddisfazione.