lunedì 21 febbraio 2011

Doc

Mi capita oggi di andare dal dottore. Nella sala d'attesa, una bimba gioca con la macchinetta della pressione sotto l'occhio vigile della madre. Un signore distinto, avvolto nel suo cappotto invernale nonostante il caldo all'interno della stanza, legge una rivista. Una signora arriva trafelata, si siede, si rialza, le cade il bastone, si toglie giacca e golfino, mi dice quanto faccia caldo qui. Le sorrido, e guardo fuori dalla finestra. Piove, manco a dirlo.

Ricordo quando da bambino mia madre mi accompagnava dal dottore. Era sempre di sera, ed era sempre d'inverno. Non pioveva, ma era buio, e c'era la nebbia. Le sedie nella sala d'attesa erano di legno bianco, un po' scomode, e raccontavano un po' la storia delle persone che vi si erano sedute sopra. Le piastrelle del pavimento erano come quelle che c'erano dallo zio Emilio, sapevano di vecchio ma anche ti ricordavano casa. Mi piaceva andare dal dottore con la mamma. Mi piaceva fare quella cosa che non facevamo mai a casa. Sederci vicino. Due sedie bianche, una accanto all'altra. La guardavo dal basso verso l'alto e lei mi chiedeva cosa avessi fatto a scuola, se avessi studiato, fatto i compiti. Faceva la mamma. Ma mi chiedeva anche che cosa volessi fare da grande, mi diceva "cosa vuoi fare" e la vedevo illuminarsi o fare facce scherzosamente preoccupate a seconda delle mie risposte. Era bello. In quei momenti lei era tutta mia. Non dovevo condividerla con i miei fratelli, con mia sorella, con mio papà. Era mia, ed era a me che si interessava. Era un momento, ed io lo sentivo. La mia mamma era mia.

Una donna sui quaranta, molto carina, minuta, entra nella sala e chiama il mio nome.
Mi alzo dalla sedia, di legno bianca, e do un ultimo sguardo fuori dalla finestra. Piove, ma fa caldo qui, e non c'è nebbia. Mi chiedo dove sia finito tutto quel tempo passato.

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